Dazi america- europa
Giovanni De Sio Cesari
L’argomento del giorno sembra essere divenuto soprattutto il problema dei dazi, posto in modo clamoroso da Trump. Su questo tema il cittadino comune non riesce a raccapezzarsi, il che sarebbe normale, ma si nota che anche gli economisti non riescono a orientarsi. Non pretendiamo certo noi qui di fare chiarezza, ma cerchiamo solo di porre il problema. Un primo aspetto da considerare è la bilancia dei pagamenti. È del tutto intuitivo che la bilancia dei pagamenti del commercio estero di uno stato non può essere perennemente in passivo; nessuno stato, come nessun privato, per quanto ricco, può permettersi di spendere più di quanto riceve per un tempo troppo lungo. La bilancia dei pagamenti deve essere prima o poi riportata al pareggio. Ora, la bilancia dei pagamenti americana è in passivo e quindi è del tutto comprensibile l’esigenza di riportarla al pareggio. Nel passato, ai tempi della Guerra Fredda, l’esigenza fondamentale era quella di "contenere il comunismo" secondo la dottrina enunciata da Truman. Perciò gli USA erano disposti a sostenere economicamente l’Europa, affinché non divenisse preda del comunismo (Piano Marshall e simili). Si trattava quindi di un investimento di difesa, possiamo dire più efficace delle armi. Ma ora questa esigenza non esiste più, e l’Europa d’altra parte è economicamente prospera e quindi non si vede perché gli USA dovrebbero ancora sostenerla economicamente. C’è però un altro problema, più complesso e più importante. Certamente, come dicono gli economisti, la globalizzazione promuove il PIL di tutti, di quelli che esportano e di quelli che importano. Infatti, i primi possono ricevere fondi per prosperare: si veda ad esempio il prodigioso sviluppo della Cina, dovuto sostanzialmente alle esportazioni verso l’Occidente. D’altra parte, chi importa lo fa evidentemente perché trova la sua convenienza a pagare di meno le merci che costerebbero di più se prodotte nel proprio Paese. Si pensi ad esempio a molti settori della moda italiana che semplicemente si limitano a inventare modelli e mettere il marchio su merci che vengono invece prodotte a prezzi molto convenienti in Paesi poveri. Giustamente dicono quindi gli economisti che la globalizzazione, cioè l'assenza di barriere commerciali fra gli Stati, aumenta il PIL di tutti. Tuttavia, il PIL pro capite è solo una media. Come si dice: se io mangio due polli e tu nessuno, secondo il PIL mangiamo un pollo ciascuno, ma non è vero. Avviene che le produzioni più semplici e manuali vengano svolte nei Paesi più poveri e gli altri lavori, in genere più complessi, nei paesi ricchi, come nell’esempio della moda. Ciò porta a quello che viene definito deserto industriale. Questo significa che la parte più povera della nazione perde lavoro e si impoverisce, mentre quella più elevata aumenta i suoi redditi. Abbiamo cioè quella che si dice una polarizzazione dei redditi, con il conseguente indebolimento della classe media e l'aumento della povertà assoluta e relativa, come appare da quasi tutte le rilevazioni statistiche dell’Occidente. Occorre allora riportare la produzione nei Paesi più avanzati (reindustrializzazione) per riportare posti di lavoro e quindi sconfiggere l'impoverimento e la povertà. È quello che Trump ha promesso ai suoi elettori: riportare le fabbriche in America, promuovere gli investimenti (MAGA: Make America Great Again). Il mezzo per agire in questa direzione appare quindi che siano i dazi che, rendendo più cari i prodotti importati, ridiano competitività ai prodotti nazionali. Trump inoltre afferma che con i dazi percepiti dagli importatori si ristora anche il bilancio nazionale americano, che è in non poche difficoltà e che sarebbe così risanato a spese degli altri Stati, senza dover ricorrere ad altre tasse sugli americani. Bisogna però tener conto che i dazi, se sono efficaci, aumentano il costo dei prodotti importati: alla fine quindi il dazio non lo pagherebbero gli esportatori stranieri, ma gli stessi americani, per cui finiscono con l’essere una tassa nascosta che grava su di loro. Insomma, se un'auto tedesca, in base ai dazi, costa il 10% in più in America, significa che l’americano che la compra paga nascostamente una tassa del 10% in più. Il problema dei dazi però è molto complesso perché l’effetto non è affatto automatico e soprattutto non immediato. Se si compra il nostro parmigiano in USA a un prezzo maggiore, questo non significa affatto che esso possa essere prodotto in USA, e soprattutto occorrerebbe del tempo perché questo possa avvenire. Il problema si complica ancora perché tutto appare incerto e confuso. Trump, come tutti sanno, dice e si contraddice continuamente: c’è chi crede che sia una tattica commercialmente efficace e chi invece pensa solo a un’incertezza di carattere che gli fa cambiare idea a ogni momento, o magari l’uno e l’altro insieme. Il risultato però è che l’incertezza si diffonde ovunque. Poiché gli operatori economici hanno bisogno di certezze per programmare la loro azione, tutto sembra andare in crisi. Le intese comunque vanno delineandosi: ultimamente anche con l’Europa c’è un'intesa sul 15% di dazi. Tuttavia, gli accordi commerciali sono molto complessi, occorre una definizione estremamente dettagliata di infiniti particolari e precisazioni. Sembra invece che questi accordi restino nel vago, siano solo principi la cui attuazione rimane incerta, vaga, soggetta a infinite interpretazioni. Si sente ad esempio affermare che gli accordi USA-UE non siano vincolanti: ma allora di che cosa si tratta mai? In effetti, nessuno è in grado di prevedere quali effetti avrà sull'economia americana ed europea l'imposizione dei dazi. Bisognerebbe anche ricordare che, promossi da Trump, essi hanno messo in ombra un problema che a noi sembra più importante: dobbiamo anche noi europei imporre dazi alla Cina e ad altre nazioni povere? In realtà, le motivazioni di Trump valgono anche per noi italiani ed europei, anzi, ci sembrano più urgenti e gravi. Ma nessuno pare parlarne più.
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