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Il "CASO" NAPOLI: LE RADICI STORICHE


Giovanni De Sio Cesari
( www.giovannidesio.it )

Indice: la scoperta di Napoli - la realtà storica - il mito

 

LA SCOPERTA DI NAPOLI

Solo al compimento dell’Unità gli Italiani del centro nord scoprirono Napoli: nemmeno gli artefici di quella Unità avevano mai visto Napoli: Cavour e Mazzini si trovavano perfettamente a loro agio a Londra come a Parigi ma non erano mai stati a Napoli così come non erano mai stati a Napoli la quasi totalità di quelli che poi furono chiamati apostoli o martiri del Risorgimento da Silvio Pellico ai fratelli Bandiera, da Gioberti a Goffredo Mameli , tranne, ovviamente. i Napoletani stessi come il Pisacane

Così, anche Garibaldi, l’eroe dei due mondi che il mondo lo aveva girato sul serio, un pò come marinaio un pò come eroe, non era mai stato a Napoli prima di entrarci come liberatore. Vi entrò il 7 settembre del 1860, quasi da solo, e in treno, precedendo di poco i suo garibaldini che anche essi, tranne i non molti regnicoli, non ci erano mai stati.

Fu accolto festosamente, arringò la folla entusiasta da Palazzo d’Angri, al centro della città, in uno spiazzo che tuttora porta il nome di “Sette Settembre”: tutta la città era in festa, dappertutto fiorivano bandiere e simboli inneggianti ai nuovi ideali.

Solo i “Luciani “ restavano silenziosi e cupi. Erano pescatori e marinai che popolavano il piccolo monte a picco sul mare del borgo di Santa Lucia: essi avevano avuto sempre un rapporto diretto con i re Borbone perchè abitavano proprio di fronte alla reggia, si sentivano "vicini di casa". Avevano familiarità con il re e anche rapporti di riconoscenza: molti di essi si erano imbarcati qualche giorno prima sulle navi, alcuni addirittura le raggiunsero a nuoto, per andare a Gaeta, per l'ultima difesa del Regno.

Ma il resto della città accoglieva Garibaldi in un tripudio di bandiere: lo accoglieva anche don Liborio Romano il primo ministro del re fuggiasco: l’incauto Franceschiello (come familiarmente e non per dileggio i napoletani chiamavano Sua Maesta Francesco II ) lo aveva messo a capo del suo governo nella vana speranza di riconciliarsi con la parte più moderata dei liberali. Garibaldi non sapeva che in effetti Don Liborio Romano aveva chiesto l’aiuto della camorra alla quale si doveva quindi in buona parte la sua accoglienza trionfale.

La camorra era una organizzazione di antiche e incerte origini: quando i Borboni tornarono sul trono nel 1815 (dopo la parentesi napoleonica) si riferirono proprio alla camorra che aveva salde basi popolari in Napoli per assicurarsi il trono contro le borghesia e la nobiltà, tutte più o meno intrise di idee liberali.

Quando i Garibaldini sbarcarono in Sicilia infatti gli ufficiali (nobili o borghesi) condussero le operazioni militari in modo debole e incerto, forse molti tradirono accordandosi con il nemico ( non si è mai saputo con certezza): così un potente esercito e una potente flotta furono sbaragliati da pochi volontari male armati .

Liborio Romano invece si era rivolto alla camorra e l'aveva convinta che, per sopravvivere, bisognava invece abbandonare i Borboni e mettersi dalla parte di Garibaldi.

Quando Garibaldi seppe che Liborio Romano era praticamente il capo della camorra andò su tutte le furie ma non potette fare niente. Chiese volontari per continuare la guerra ma i napoletani non se la sentivano di andare a combattere contro i loro fratelli che militavano nell'esercito borbonico: in seguito questi per poco non sconfissero, sul Volturno, i Garibaldini.

I Garibaldini entrati in Napoli intanto si stupivano: non avevano mai visto una città cosi grande e cosi diversa dalle proprie: se Napoli era Italia, chi poteva dubitarne, non certo i Garibaldini, era però una Italia abbastanza particolare.

Si mangiava anche cose diverse: non si usavano come dovunque le zuppe nelle quali bagnare il pane: c’erano i "maccheroni". Si faceva la pasta con la farina, come per il pane, e invece di cuocerla in forno la si cuoceva nell'acqua: in grandi pentole per le strade si bolliva l'acqua nella quale veniva cotti i maccheroni che venivano mangiati così, semplicemente, senza condimenti, prendendoli con le mani dall' alto, come si vede in certe illustrazioni di Pulcinella.
Furono graditi ai volontari di Garibaldi, giovani e di buon appetito, e poi si diffusero in tutta Italia e poi nel mondo: furono poi create tecniche di lavorazione specifiche e tanti condimenti per renderli più appetitosi.

Napoli appariva già un caso a parte: poi tante inchieste giornalistiche e parlamentari, poi le canzoni e il colera, i guappi, e la camorra, le pizze e le sfogliatelle: Napoli fa sempre notizie fino a questi giorni in cui tutti incollati alla TV a vedere i roghi delle immondizie si domandano perchè queste cose debbano avvenire solo a Napoli.

 

LA REALTA' STORICA

 

Napoli si presenta dal punto di vista urbanistico come un “unicum” in Europa e, crediamo, nel mondo.

Tutte le città europee, di antica origine, presentano un centro storico, fatto di stradine strette intervallate da qualche spazio, che risale al medioevo, spesso anche alla città antica greco o romana.

E’ quello che avviene anche a Napoli: vi è un ampio centro dal castello Capuano a Piazza del Gesù, da San Marcellino a S. Maria delle Dame che corrisponde alla città greca, notevolmente ampliata poi nel medioevo.

Ma ciò che caratterizza Napoli è che oltre a questo primo centro vi sono tanti altri quartieri che hanno le stesse caratteristiche: vi è cioè una serie di altri quartieri con le stesse caratteristiche del centro storico che si svolgono tutti intorno a quello. Senza farne una elenco esaustivo partendo da oriente vediamo i quartieri Borgo S. Antonio, dei Miracoli di Capodimonte, della Sanità, della Stella e Mater Dei, della Sanita, del Cavone, dei Ventaglieri, i Quartieri Spagnoli, delle Mortelle, di Santa Lucia, di Chiaia. L’ ampiezza di questo centro storico allargato è smisurata, non ha riscontro in nessun altra città europea.

 

Bisogna allora rendersi conto dei motivi storici di questa proliferazione abnorme.

Napoli era la capitale di un vasto regno: quando si affermò l'assolutismo, dal periodo vicereale in poi, la nobiltà venne a risiedere nella capitale. Così facendo, però, in effetti si venne a drenare tutta la ricchezza del regno, che non era molta, nella capitale.

Praticamente ogni nobile, proprietario terriero, spendeva le proprie rendite prodotte in tutte le altre parti del Regno a Napoli: questa situazione indusse un gran numero di persone che stentavano a procacciarsi di che vivere a trasferirsi a Napoli: quivi giravano le ricchezze del Regno: era possibile appropriarsene di qualche briciola, tanto da non morire di fame. Si poteva lavorare al servizio dei nobili per soddisfare le loro in manie di grandezza nel gareggiare in vanità fra di loro, per farsi apprezzare dal re: e poi se tutto mancava c’erano sempre i tanti conventi e istituti pii, che avevano anche essi le loro rendite lontano, e poi le dame, caritatevoli per desiderio di prestigio o vero senso cristiano: insomma non si poteva mai morire di fame: una minestra la si poteva sempre raccattare da qualche parte. Sorse poi così un intero ceto sociale, i cosi detti “lazzari”: individui cioè che non avevano nè mestiere nè casa ne altro e che riuscivano comunque a tirare avanti. Intorno al centro quindi si costruirono poco alla volta tante altre periferie che replicavano il centro nei quali, come nel centro, la gente si accalcava all’inverosimile, nei terranei ( i famosi “bassi”) dei palazzi, dovunque fosse possibile un ricovero per la notte: il giorno invece si viveva alla meglio per le strade che diventavano una grande casa comune.

Avveniva a Napoli un fenomeno simile a quello che avviene ora in proporzioni ben più gigantesche nelle metropoli del terzo millennio in cui alle periferie delle città si affollano masse di diseredati, speranzosi di afferrare un pò della ricchezza che vi circola e che si arrangiano alla meglio costruendosi rifugi alla men peggio: un fenomeno simile d’altra parte era avvenuto anche nell’antica Roma cresciuta a dismisura in epoca imperiale.

Questa era la città che si presentava ai Garibaldini: una popolazione in buona parte senza risorse, non inserita in attività propriamente produttive che vivacchiava alla meglio sulle rendite dei nobili, della Chiesa, della monarchia. Lo stesso attaccamento al vecchio ordine politico va pure visto in questo quadro: come potevano essere i “lazzari” favorevoli alla rivoluzione portata dalle truppe francesi nel '99 o dai liberali mazziniani che minacciavano proprio di smantellare la monarchia, la chiesa, la nobiltà che era la loro fonte di reddito?
 

Molti storici (impropriamente detti neo borbonici) hanno messo in risalto che il Regno di Napoli aveva, al momento dell’unità, molti primati: vi sono ben quattro regge di cui quella di Caserta poteva essere paragonata a Versailles, le seterie di S. Leucio, il primo tratto ferroviario, la prima nave a vapore a tanti altri. Tuttavia questi primati vanno visti sempre nell’ottica di cui stiamo dicendo: le ricchezze, per altro molte modeste, del Regno venivano drenate nella capitale: la monarchia poteva quindi fregiarsi di questi primati per prestigio ma non si trattava dell’espressione di autentica attività economica di prosperità.
Ad esempio è vero che la prima ferrovia italiana fu quella della Napoli - Portici: però essa era una specie di capriccio della corte che poteva raggiungere la reggia estiva con questo nuovo mezzo. Se si visita il museo ferroviario di Petrarsa, presso Napoli, si vede la elegante sfarzosa carrozza originaria (in verità una ricostruzione) adatta al prestigio della corte: niente a che fare con le ferrovie inglesi e poi piemontesi che invece erano concepite per il trasporto effettive di merci.

Con l’unità italiana la crisi a Napoli divenne generale: veniva a mancare la corte, la Chiesa era stata espropriata della maggior parte dei propri beni, tanti conventi chiusi, la nobiltà tradizionale anche essa era in decadenza o si spostava nei nuovi centri del potere. La moltitudine dei diseredati restava senza le tradizionali fonti di reddito: Napoli era diventata una testa immensa senza corpo, un caso sempre pronto a riesplodere.

Non restava che arrangiarsi alla meglio in una situazione sempre più difficile, vivere giorno per giorno con gli espedienti che il giorno suggeriva. Napoli diventa la città dell’arrangiarsi, dove si sviluppa e si affina quella capacità di adattamento, di cavarsela comunque e in ogni situazione che è diventata proverbiale in Italia e forse nel mondo: un popolo che si arrangia perchè non ha fonti certe e sicure di reddito, un popolo che più che vivere sa sopravvivere: una folla immensa che affolla vicoli e vicoletti, che ogni mattina non sa come si procurerà i “maccheroni” per il pranzo, di padri di famiglia che escono per “ la campata”.

Nella altre città italiane ed europee i centri storici vengono ricostruiti completamente come a Parigi, a Londra a Milano o semplicemente riqualificati come a Barcellona o a Monaco.

Alla fine del 800 anche a Napoli si tenta un “ Risanamento” dopo la epidemia di colera del 1885: vengono abbattute un certo numero di case fatiscenti, costruite alcune strade ampie e moderne ( via Rettifilo, via Duomo, le vie del mare ) ma in sostanza il centro allargato è troppo ampio e soprattutto troppo popolato. Nascono in seguito invece i nuovi quartieri, alcuni popolari, altri borghesi; ma il nucleo antico e dolente di Napoli rimane ancora inalterato, assediato dal nuovo che pure è avanzato ma che non riesce a distruggere l’antico: è come se ci fossero due città in una: una parte che sta nel duemila, una parte che ancora nel 600 e nel 700.

 

Il MITO

 

Nell’immaginario collettivo italiano ed europeo si è affermato però un “mito” di Napoli che solo in parte riflette la effettiva realtà napoletana.

Facciamo una considerazione generale: ogni città, come anche ogni nazione, viene pur sempre identificata da un suo aspetto particolare considerato saliente e rappresentativo. Cosi ad esempio Parigi è la “ville lumiere”, la città della cultura, degli artisti, dell'amore perchè la identifichiamo con la Sorbona, l'Ile de France, Place Vendome, Pigalle. Come ci rappresenteremmo invece Parigi se la identificassimo con le banlieue in preda al degrado, al disordine sociale, periodicamente rischiarate da roghi di rivolta? La nostra idea di Parigi sarebbe ben diversa.

A livello letterario, giornalistico, mass mediale quasi inevitabilmente si tende a metter in luce quello che è peculiare di una città sottacendo quello che la accomuna alle altre città. In questo modo si rappresenta la Napoli arretrata dei bassi, dei vicoli stretti, dei panni stesi, della folla miserabile che vive di espedienti. Poiché, però, questo tipo di vita comporta anche un forte spirito solidaristico allora Napoli è anche la città del cuore, dei buoni sentimenti, della generosità.

Per esemplificare un tale fenomeno prendiamo ad esempio il film “L’oro di Napoli” di De Sica del 1954 che mette in scena, nei vecchi vicoli della città, fra usanze antiche, i buoni sentimenti di una cultura fortemente solidaristica, il “cuore” cioè che sarebbe il vero “oro”, la vera ricchezza di Napoli. Vediamo allora in un ambiente seicentesco il pazzariello nella magistrale interpretazioni di Toto, il guappo che prende a schiaffi chi non lo ha salutato, la pizza fritta che si paga dopo una settimana ( Sofia Loren ), il "dispensatore" di saggezza (Eduardo) , tutto un mondo che sta per sparire già negli anni 50 ma che diventa la rappresentazione di Napoli per i decenni successivi.
E infatti innumerevoli sono i film e le opere che seguono questo filone, della eccezionalità del "caso" Napoli: dalla venditrice di sigarette sempre incinta (Sofia Loren) di “Ieri, oggi e domani” alle improbabili sceneggiate di Mario Merola.

Ma quelle zone di Napoli che fanno da sfondo alle rappresentazioni sono per lo più sconosciute agli stessi napoletani che non vi siano residenti: Il quartiere Sanità, uno dei più ripresi come scenario, è generalmente evitato dai napoletani: qualche volta ci si passa per la strada principale ma nessuno o quasi osa inerpicarsi in quel dedalo di strada dai nomi pittoreschi risalenti ai secoli scorsi: i Cagnazzi, i Cinesi, i Cristallini, Arena S. Antonio: quasi nessun napoletano riconosce i posti che ha visto nei film.

Ma Napoli non è solo la Sanità: vi sono i quartieri moderni come il Vomero, le vie eleganti, i quartieri operai, i quartieri borghesi, quelli dei vip, il centro direzionale: vi è tutta una popolazione che lavora, produce, con punte di eccellenza, come dovunque. Se il guappo, il pazzariello, il "dispensatore" di saggezza uscissero da quei vicoli e si spostassero di qualche chilometro raggiungendo il Vomero o Fuorigrotta sarebbero sommersi dal ridicolo: e d’altra parte ormai sono spariti anche dagli antichi vicoli.

Cosa identifica Napoli, il Vomero o la Sanità dai nomi pittoreschi?

Luciano De Crescenzo nella sua rappresentazione di maniera di Napoli, tutta immersa in una improbabile filosofia ed aliena dalla modernità, esplicitamente avverte che egli esclude dalla "sua" Napoli tutta la serie dei quartieri moderni: praticamente egli si riferisce sempre agli antichi vicoli: è come se noi identificassimo New York con il Bronx o Barcellona con il quartiere “cino”, senza tener conto di Manhattan o delle Ramblas.

D’altra parte quel mondo va sempre più perdendosi: gli stessi quartieri antichi vanno svuotandosi di napoletani e affollando di immigrati che vanno a sostituire i vecchi residenti ( come avviene a Porta Palazzo a Torino e nei “carruggi” di Genova ).

Con questo non si vuol dire pero che non vi siano a Napoli una massa notevole di popolazione che effettivamente non trova ancora un lavoro dignitoso e sicuro e quindi è costretta ad arrangiarsi, in nero, come meglio può. seguendo ancora la dolorosa via obbligata dei propri antenati: gli abusivi di ogni genere abbondano a Napoli e le danno pure quel certo aspetto di disordine e vivacità

Una immagine di Napoli invece equilibrata e veritiera ci viene da Massimo Troisi: nei suoi personaggi vediamo i giovani napoletani che hanno tutti i caratteri, i problemi, le difficoltà dei giovani moderni di tutta Italia e d’Europa: anche se parla con accento napoletano e si muove nelle strade strette di Napoli però egli è un europeo come gli altri: i guappi, e il pazzariello appartengono ormai al passato, nel bene e nel male. Ora ci sono i pub, i video game, gli internet point e purtroppo anche tanta droga, come in ogni altra parte dell’Occidente.

Perfino il glorioso dialetto napoletano è parlato sempre di meno: le nuove generazioni, ormai da molto, non lo hanno più come lingua materna e lo apprendono in seguito ma solo un poco: i napoletani parlano come Massimo Troisi non come i personaggi di Scarpetta.

La diffusione della scolarizzazione ha fatto si che la stragrande maggioranza dei giovani ormai ha un titolo superiore di studi: gli analfabeti sono spariti e gli ignoranti in genere sono in numero sempre più esiguo: molti sono i disoccupati ancora ma quasi tutti con titolo di studio; non pochi spazzini hanno la laurea.

Perfino i maccheroni e la pizza cedono il posto a hamburger e patatine, perfino le tradizionali canzoni napoletane non vengono più cantate dai giovani ormai da un bel pezzo.

Il mondo del “L’oro di Napoli” si ritrova negli emigrati napoletani nel mondo come un nostalgico ricordo di una cultura tradizionale napoletana che ormai non esiste più: per vedere la festa di S. Gennaro non bisogna più andare a Napoli dove quasi non si festeggia più ma a New York: infatti le agenzie turistiche offrono viaggi organizzati per napoletani che vogliono vedere come era una volta Napoli.