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VLADMIR PUTIN

 

Il sogno imperiale

di Lucio Caracciolo

 

L'obiettivo di Putin è di ricostituire uno spazio russo, non inferiore a quello sovietico. Ciò significa reintegrare nell'orbita di Mosca le Repubbliche ex sovietiche ed estendere l'influenza russa in Eurasia, Medio Oriente,  Africa e Sudamerica
 
Putin ha deciso che nei prossimi due-tre anni la Russia deve recuperare in pieno la sua dimensione di grande potenza globale. Si è così inaugurata la seconda fase della sua presidenza, dopo che nei primi cinque anni il leader russo si è soprattutto preoccupato di ricostruire la 'verticale del potere', ossia impedire la frammentazione e quindi la scomparsa definitiva del suo paese dalle carte geografiche. Oggi il Cremlino si sente relativamente sicuro sotto questo profilo, anche se restano gli enormi problemi legati alla catastrofe demografica (meno 900 mila russi all'anno, dal 1999), al disastro sanitario, leggi alcolico (aspettativa di vita di 58 anni per gli uomini, 72 per le donne) e alla corruzione endemica degli apparati pubblici.

L'obiettivo geopolitico di Putin è di ricostituire uno spazio imperiale russo, non troppo inferiore a quello sovietico. Questo significa reintegrare nell'orbita di Mosca almeno le principali fra le Repubbliche ex sovietiche ed estendere l'influenza russa in tutta l'Eurasia, in Medio Oriente, ma anche in Africa e in Sudamerica. Al Cremlino sentono infatti che i rapporti di forza su scala globale stanno mutando a suo favore. Infatti: Bush ha perso le sue guerre in Afghanistan, e in Iraq e si avvia a un biennio finale da anatra zoppa (lo sapremo meglio dopo il voto di mezzo termine del 7 novembre).

La Russia fruisce della bonanza energetica e dispone di enorme liquidità, con cui sta facendo shopping in giro per il mondo, secondo criteri insieme geopolitici e finanziari: così per esempio conta di legare a sé indissolubilmente la Germania e le maggiori potenze economiche europee, anche per allentarne i vincoli con gli Stati Uniti. Significativa la recente decisione della Gazprom di escludere i partner stranieri dallo sfruttamento del grande giacimento gasifero di Shtokman, nel mare di Barents, e di venderne il gas agli europei invece che agli americani, come inizialmente previsto.


Il fallimento della strategia mediorientale di Bush permette a Mosca di tornare a giocarvi un ruolo rilevante, quasi come ai tempi dell'Urss. Ad esempio, la Russia mantiene un legame privilegiato per armamenti ed energia con l'Iran (la centrale atomica di Bushehr in allestimento dipende dai russi); anche nella recente guerra fra Israele e Hezbollah i russi hanno armato i guerriglieri sciiti con ordigni di nuova generazione, filtrati via Siria. Da non sottovalutare peraltro il ruolo della comunità ebraica russa in Israele, sempre più rilevante anche politicamente.

I russi continuano a temere la sinizzazione della Siberia e considerano quindi una priorità mantenere un rapporto pragmatico con Pechino, usando l'apertura/chiusura del rubinetto energetico per condizionare le mosse della Cina.

Nella fascia intermedia fra Unione europea e Russia, quella che gli americani stanno tentando di vincolare a sé attraverso l'allargamento progressivo della Nato dal Mediterraneo al Caspio, Putin sta reagendo secondo la strategia delle enclavi: intende cioè costruirvi staterelli e territori a lui fedeli, usando anche qui l'arma energetica e la pressione politico-militare, in modo da condizionare gli assetti geopolitici e strategici della regione. Esempio: dopo la conquista del Montenegro da parte della mafia russa, il Cremlino è ora favorevole all'indipendenza del Kosovo - alla faccia della Serbia, sorella ortodossa - perché in questo modo intende legittimare il proprio controllo (anche via referendum addomesticati) in Transnistria (striscia di territorio moldavo controllato dalla mafia russa e dai resti della 14esima armata sovietica), Abkhazia e Ossezia del Sud (Georgia) e in prospettiva anche in Crimea (Ucraina).

Naturalmente Putin non ha alcun interesse a forzare il confronto con gli Stati Uniti, e quando possibile procede sottotraccia. Bisognerà vedere se ed eventualmente come l'ultimo Bush saprà contrastare la rinascita dell'impero russo. E se gli europei asseconderanno o meno il gioco russo; ossia se si renderanno più o meno dipendenti di quanto già non siano dal gigante energetico eurasiatico

 

 

 

 Giornalisti uccisi nella Russia di Putin

Piero Ostellino

La sequela di omicidi è impressionante. Dal 1996 al 2005 sono stati assassinati, in Russia, ventiquattro giornalisti, tredici dei quali, dall’avvento di Putin al potere, ad opera di killer a pagamento. Dopo l’uccisione, poco più di una settimana fa, di Anna Politkovskaya della Novaya Gazeta, che indagava sugli eccidi russi in Cecenia, è stata la volta, l’altro ieri, di Anatoly Voronin, esperto economico dell’Itar-Tass, accoltellato nella sua stessa abitazione.

Il 13 settembre scorso, presumibilmente anche lui per analoghe ragioni politiche e economiche, era stato ucciso il vice- presidente della Banca centrale, Andrei Koslov, intenzionato a riformare il sistema bancario e a fare pulizia nelle banche che riciclano denaro sporco. Nella Russia post-sovietica, sembrerebbe, dunque, avverarsi la profezia di Marx secondo la quale la modernizzazione borghese avrebbe spazzato via il velo che le convenzioni avevano steso sulla vera natura delle relazioni sociali e rivelato la brutalità dell’accumulazione e dello scambio capitalistici.
La Russia post-sovietica sembrerebbe smentire, altresì, un postulato politico del pensiero liberale ottocentesco e un auspicio sociologico di quello novecentesco. Il postulato ottocentesco secondo il quale la modernizzazione capitalistica favorirebbe spontaneamente la nascita di istituzioni politiche liberali e democratiche (Stuart Mill, Bentham e altri). L’auspicio novecentesco secondo il quale la modernizzazione capitalistica dovrebbe facilitare l’emersione — fra la sfera dell’autorità pubblica statale e la sfera dell’autorità privata sociale —di una «sfera pubblica borghese» costituita dalla generalità dei cittadini interessati a mettere costantemente in discussione il modo di governare il Paese (Habermas).
In realtà, la Russia post-sovietica sembrerebbe confermare, piuttosto, un principio teorico e un dato di fatto empirico incontrovertibili. Il principio teorico: che non è possibile passare da un sistema politico totalitario e da un sistema economico di pianificazione centralizzata a un sistema politico democratico e a un sistema economico di mercato senza la preventiva costituzione di un «sistema legale» che limiti il potere politico e disciplini la competizione economica.
Il dato di fatto empirico: che, senza un «sistema legale » di pesi e contrappesi, ad affermarsi, in Russia, sono state la storica vocazione autocratica del potere politico e, sotto il profilo economico, la criminalità organizzata, in un clima di guerra di tutti contro tutti, complice il potere politico o, comunque, da esso tollerata per ragioni di equilibri interni. In tale difficile contesto, giornali, televisioni, radio e, soprattutto, un manipolo di giornalisti indipendenti e coraggiosi hanno cercato di assolvere la funzione che Habermas assegna alla comunicazione nella creazione di una «sfera pubblica borghese» ancora in via di formazione in Russia, finendo con lo scontrarsi con i poteri e gli interessi organizzati.
La reiterata uccisione di giornalisti—in un Paese membro dell’Onu, che ha sottoscritto la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo e che rimane una grande potenza mondiale — assume, così, la connotazione di una questione che riguarda la tutela dei diritti umani. Questione che la comunità internazionale, a questo punto, non può continuare a fingere di ignorare in cambio delle forniture di petrolio e di gas russi.
 
 
18 ottobre 2006