CENNI STORICI DELL'EMIGRAZIONE ITALIANA

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1.La crisi delle campagne

Il processo di industrializzazione, estesosi progressivamente dall'Inghilterra al continente europeo nel corso del XIX secolo, si presenta incerto o tardivo in Italia. In un paese rimasto fortemente contadino il perdurare di una diminuzione dei prezzi agricoli su scala mondiale e la politica dei dazi doganali rovina migliaia di agricoltori.

In complesso, tra il 1875 e il 1920 oltre cinque milioni di persone vengono in pratica cacciate dalle campagne andando alla ventura, verso paesi lontanissimi, soprattutto le due Americhe.

1.1Il meccanismo perverso dei dazi

Quando il governo italiano introduce i dazi doganali sulle importazioni, per gli industriali e gli agrari italiani si tratta di un grosso regalo, perchè ora possono vendere i loro prodotti a prezzi elevati, senza più temere la concorrenza dei prodotti stranieri, meno cari.
A farne le spese sono però gli agricoltori che esportavano prevalentemente in Francia i loro agrumi e prodotti ortofrutticoli. Quando infatti la Francia risponde ai dazi doganali italiani introducendone a sua volta, questi agricoltori sono rovinati a migliaia.

B. L' emigrazione estera

1.Prima fase migratoria: 1861-1900

Nela storia dell'emigrazione italiana dei primi sessant'anni dopo l'Unità, si distinguono due periodi. La prima fase, che giunge grosso modo fino alla fine dell'Ottocento, è caratterizzata da un forte flusso migratorio dalle regioni settentrionali.

Tra i paesi di destinazione l'America settentrionale (in particolare gli Stati Uniti) occupa una posizione di rilievo, ma non esclusiva. Altrettanti emigranti sono attirati dai grandi paesi del sud, Brasile e Argentina.

La scelta tra le aree di destinazione è una scelta tra un lavoro e una collocazione sociale simili a quelli lasciati in patria, e un radicale e brusco cambiamento.

1.1 Emigrazione italiana in Nordamerica

Gli emigranti italiani nell'America settentrionale si inserivano in un paese fortemente urbanizzato, e si indirizzavano ad attività lavorative di tipo industriale (in genere dequalificate) o alla costruzione di strade e ferrovie;raramente al lavoro agricolo.

Il flusso dall'Italia settentrionale, così come quello tedesco, scandinavo, britannico, proviene da paesi dove è in corso una rivoluzione industriale e un' intensa trasformazione sociale; si tratta di un'immigrazione relativamente colta e qualificata dal punto di vista lavorativo, i cui costumi differivano poco da quelli "americani", cioè da quella cultura di origine britannica che era stata faftta propria dalla maggioranza della popolazione statunitense.

1.2 Emigrazione italiana in Sudamerica

L'emigrazione in Sudamerica, in particolare in Brasile, riusciva spesso ad inserirsi nell'agricoltura, in molti casi arrivando a costituire aziende indipendenti.

L'emigrazione veneta in America latina arriva a produrre un fenomeno unico: le cosiddette golondrinas, le rondinelle che, a partire dagli anni Novanta, sfruttando l'inversione delle stagioni nei due emisferi, si muovevano da ottobre a marzo per i raccolti e soprattutto per la mietitura. Ogni emigrante tendeva ad andare là dove sapeva di poter trovare parenti, o amici, o conoscenti, da cui poteva attendersi aiuto.

Tra aree di partenza e aree di destinazione si stabilivano dei nessi privilegiati, così gli emigranti dalla zona di Bassano, nel Veneto, tendevano a emigrare in Brasile, in particolare nell'area nota appunto come "Nuova Bassano"; quelli di molti villaggi liguri, in California; e così via.

2.Seconda fase migratoria:1900-1950

La seconda fase della storia dell'emigrazione italiana inizia all'incirca col nuovo secolo ed è caratterizzata da un semplice mutamento: per quel che riguarda le aree di partenza, le regioni meridionali, e prima fra tutte la Sicilia, acquistano un ruolo crescente (si realizza così, all'interno del nostro paese, la generale tendenza della demografia europea a spingere sempre più a sud e a est le aree di partenza degli emigranti transoceanici); per quel che riguarda le aree di destinazione, gli Stati Uniti rappresentano la meta quasi esclusiva.

2.1Migranti meridionali: le caratteristiche

Questa "nuova immigrazione" è composta in genere di analfabeti, contadini sradicati dalla terra, poveri, la cui cultura differisce radicalmente da quella "americana".

E’ un'emigrazione in larghissima prevalenza maschile e adulta (donne e bambini, cioè, restavano in Italia), con una percentuale di rimpatri straordinariamente elevata (quasi uno su tre), dedita ai lavori di tipo operaio, poco o per nulla qualificato (mentre scarsissimi sono gli emigranti che si dedicano ad attività rurali), e che destina gran parte dei suoi magri guadagni, spesso oltre la metà, alla famiglia rimasta in Italia.

La loro intenzione non era (come era avvenuto ad esempio per gli irlandesi, o per l'emigrazione settentrionale che li aveva preceduti, e come avveniva ancora per gli ebrei dell'Europa orientale) il puro e semplice abbandono della propria terra incapace di mantenerli, bensì il guadagno, con l'emigrazione, di denaro sufficiente a comprare terra in paese, a mutare cioè la propria condizione nel paese d'origine.

Così si spiega l'incredibile flusso di "rimesse", di denaro cioè inviato in patria dagli emigranti.Il flusso di una simile quantità di denaro dall'estero faceva dell'emigrazione di massa una straordinaria risorsa per l'economia italiana permettendo al paese acquisti di materie prime e pagamenti di debiti internazionali.

Solo molto tempo dopo la classe dirigente italiana ha cominciato a comprendere quanto quei vantaggi immediati siano stati pagati con il decadimento economico di intere aree, oltre che naturalmente con tragedie e sofferenze personali e collettive di poco inferiori a quelle provocate da una guerra.

Gran parte delle forze politiche dominanti era nettamente favorevole all'emigrazione di massa anche in quanto si trattava di una valvola di sfogo là dove le tensioni sociali rischiavano di divenire insostenibili, in particolare nell'Italia meridionale.

2.2 Atteggiamenti razzisti negli Stati Uniti

Molti americani assumono i meridionali italiani come il simbolo della " nuova immigrazione" meridionale ed orientale (russi, slavi del sud, greci).
Tanto che per poter dare una spiegazione "scientifica" - cioè biologico-razziale - alle evidenti differenze culturali ed economiche tra le due aree di provenienza degli emigranti italiani, tra il nord e il sud del nostro paese, sociologi e governo sentono il bisogno di attribuire gli immigranti italiani a due ceppi diversi : "celtici" , affini cioè agli irlandesi e ai francesi, i settentrionali; "iberici", affini cioè ai portoghesi e agli spagnoli, i meridionali.

Per spiegare le differenze di cultura e di comportamento tra gli italiani del nord e del sud emigrati negli Stati Uniti, anzichè ricorrere a simili assurdità pseudo-scientifiche, sarebbe bastato conoscere la diversa situazione economica delle diverse regioni italiane e il diverso atteggiamento che, prima dell'unificazione (e anche dopo) il potere politico vi aveva tenuto, in relazione all'istruzione come all'andamento sociale delle campagne.

3 La chiusura delle frontiere americane

Con due leggi, una del 1921 e l'altra, ancora più restrittiva, del 1924, gli USA chiudono le frontiere all'immigrazione.

Alla base della campagna anti-immigrazionista c'è la convinzione che l'afflusso di immigranti dall'Europa meridionale ed orientale stia avendo un'influenza negativa sul paese, sia dal punto di vista razziale (in quanto sarebbe cresciuto il peso delle "razze inferiori" rispetto a quelle superiori, in particolare a quella "anglosassone"), sia dal punto di vista economico (in quanto i "nuovi immigranti" erano considerati meno produttivi e più tendenti a farsi mantenere dalla collettività di quanto fossero stati i loro predecessori).
In questo modo spariva quella che era stata la massima valvola di sfogo, per oltre un secolo, degli squilibri demografici europei.

C. La migrazione interna del secondo dopoguerra

All'inizio del '900 l'industria italiana entra in una fase espansiva, ma si tratta di un'industria concentrata in pratica nell’Italia settentrionale, anzi nel "triangolo industriale" Torino, Milano, Genova.

Nei decenni successivi, a causa di ciò, il dislivello tra Nord e Sud non fa che aumentare.
La riforma agraria del 1950, poi, non raggiunge gli obiettivi che l'avevano ispirata: la sostituzione al Sud del latifondo improduttivo con una quantità di piccole e medie proprietà contadine, il cui sviluppo avrebbe dovuto colmare l'antico squilibrio con il Nord e risolvere la "questione meridionale

1. Le cause dello squilibrio nord-sud

Dopo la ricostruzione, l'economia meridionale, nonostante uno sviluppo nei valori assoluti, vede diminuire lentamente il suo peso percentuale nell'economia nazionale.

Mentre nel 1951 l'agricoltura meridionale rappresenta il 35,4% del prodotto agricolo nazionale, nel 1960 rappresenta soltanto il 34,1%. In altre parole l'agricoltura del Sud conosce un certo sviluppo, ma nello stesso periodo di tempo lo sviluppo dell'agricoltura del Nord è più rapido.

Analogamente, mentre nel 1951 l'industria meridionale rappresenta il 14,9% del prodotto industriale nazionale, nel 1960 essa passa al 14,6% del totale.

Quanto alle attività terziarie, queste erano passate, nel Mezzogiorno, dal 23,4% (nel 1951) al 23,0% (nel 1960).
In complesso, la parte di prodotto nazionale proveniente dal Mezzogiorno passa in dieci anni dal 23,4 al 21,2% del totale.

Se poi si considera il reddito pro capite nazionale uguale a 100, mentre nel 1951 il reddito pro capite nel Mezzogiorno uguale al 59,2 nel 1960 corrisponde a 56,6.

Lo squilibrio tra le due parti del paese si aggrava col passare del tempo anzichè ridursi.

I contadini devono restare contadini , e costituire il cosiddetto esercito industriale di riserva, cioè una massa di lavoratori da trasformare in operai soltanto se l'industria italiana fosse entrata in una fase di espansione.

Ma attorno al 1950, l'industria italiana, da poco uscita dalle rovine della guerra, è impegnata nella ricostruzione: un afflusso massiccio di contadini poveri dal Sud al Nord andrebbe a infoltire la massa già grande dei disoccupati (nel 1950 essi sono quasi 2 milioni, più del 10% della forza lavoro complessiva) creando una serie di tensioni sociali gravissime.

A questo punto, la politica di riforma manifesta contraddizioni nelle proprie decisioni.

In un primo momento, per accontentare il maggior numero possibile di assegnatari senza scontentare troppo i latifondisti, si decide di limitare in generale l'estensione dei lotti assegnati a pochi ettari.
In tal modo si crea un gran numero di piccole proprietà che a stento sono in grado di sostenersi economicamente.
Ma l'obiettivo della riforma agraria - accontentare l'antica fame di terra dei contadini meridionali, e bloccare un movimento di massa ormai pericoloso - viene raggiunto.

In seguito gli interventi di bonifica e di finanziamento della Cassa del Mezzogiorno cominciano a diventare più selettivi, meno indiscriminati, concentrandosi cioè in prevalenza su quella che viene definita la polpa del Mezzogiorno - le zone fertili costiere, il Metaponto, la piana del Volturno, ecc. - lasciando perdere l'osso, e cioè le zone montane scarsamente produttive, se non del tutto sterili. Si cerca cioè di finanziare un'agricoltura altamente meccanizzata, basata su colture specializzate, in grado di produrre a prezzi competitivi per i mercati europei.
E' una soluzione logica, dal punto di vista strettamente economico.
Ma in questo modo i milioni di contadini che vivevano una vita stentata nelle zone che costituivano l'osso del Mezzogiorno, vengono abbandonati a se stessi.

2. L'emigrazione verso i centri industriali

Anche negli anni '50 la soluzione provvisoria delle contraddizioni del Mezzogiorno viene dall'emigrazione.
Ma, a differenza della grande emigrazione che si era attuata tra '800 e '900, questa non è diretta soltanto verso l'estero, che in quegli anni significa specialmente il Belgio, ma soprattutto verso l’interno, verso l’Italia settentrionale.

L'impetuoso sviluppo dell'industria del Nord negli anni del "miracolo economico", provoca un fenomeno di migrazioni interne senza precedenti nella storia d'Italia, sia per le sue dimensioni, sia per le trasformazioni sociali cui esso dà luogo.

Tra il 1951 e il 1967 più di 5 milioni di persone lasciano le campagne, attratte dalla prospettiva di lavorare nell'industria e tra esse una larga fetta proviene dal Sud.

2.1 L'emigrazione in Belgio

Vengono conclusi in questi anni vari accordi bilaterali tra Italia e Belgio, che definiscono sostanzialmente gli aspetti finanziari dell'immigrazione italiana, e precisamente il protocollo del 20 giugno 1946 ed il protocollo dell'11 dicembre 1957.

Gli immigrati italiani si dirigono in misura considerevole verso le miniere di carbone del Belgio: sono circa 24.000 nel 1946, oltre 46.000 nel 1948.

A parte un periodo di flessione corrispondente agli anni '49-'50, anni di rallentamento dell'espansione economica, il movimento migratorio continua con grande intensità, raggiungendo la punta più elevata nel 1961, quando gli italiani rappresentano il 44,2 per cento della popolazione straniera in Belgio, raggiungendo le 200.000 unità.

2.2 Migranti dal Nord e migranti dal Sud

Per chi lasciava le campagne del Nord la situazione era, in genere, più favorevole.

C'era, sì, una forte corrente migratoria dalle zone collinari povere di alcune regioni (soprattutto del Veneto) verso città lontane come Milano e Torino, o verso l'estero.
Ma nella maggior parte dei casi si trattava di andare dalla campagna al capoluogo di provincia, o a un grosso paese in cui erano sorte industrie.

In questi casi gli spostamenti erano limitati (poche decine di chilometri) o addirittura inesistenti: molti potevano continuare a risiedere dov'erano prima, e limitarsi a cambiare mestiere.
In termini di condizioni di vita, di abitudini, di integrazione nell'ambiente sociale circostante, i cambiamenti erano modesti e non drammatici.

Ben diverso era, invece, il caso di chi abbandonava la campagna meridionale.
Qui, essendo mancato - o assai ridotto nelle sue dimensioni - uno sviluppo industriale moderno, partire significava fare non decine, ma centinaia e anche migliaia di chilometri.
Significava passare in un mondo diverso, caratterizzato da abitudini, mentalità diverse e spesso ostili.

Il quartiere di San Salvario a fianco della stazione di Porta Nuova a Torino è stato per anni il primo approdo degli immigrati dal Sud, che appena arrivati cominciavano a girare per quelle strade alla ricerca di un alloggio.

In un clima di diffidenza, spesso l'unica soluzione era rappresentata dalle pensioni ed affittacamere che noleggiavano i letti secondo i turni di lavoro delle fabbriche.