EMIGRAZIONE INTERNA ITALIANA

 

Commento di Delia  Socci

NEGLI ANNI 50 e 60

 

http://www.meetingpoint2000.it/Novecento/900/Boom/boom_economico.htm#emigrazione 

 

Negli anni del miracolo economico aumenta notevolmente l’emigrazione. L’apice di questo fenomeno,  si verifica negli anni ’55-’63;

Le mete erano le città del centro-nord Italia, soprattutto Milano, Torino, Genova, oppure quelle del nord Europa; infatti, dopo la crescita industriale che coinvolse anche il resto degli Stati europei, Svizzera, Belgio e Germania divennero meta di molti nostri connazionali.

Già prima dell’avvento del boom, il “consueto” divario tra nord e sud dell’Italia era enorme; con lo sviluppo economico queste differenze aumentarono, costringendo molte persone a trasferirsi nelle ricche città del Nord alla ricerca di una speranza. 

Alla base di questo fenomeno vi sono diversi fattori tra cui la necessità di maggiore denaro e di un lavoro stabile, il fascino delle nuove metropoli del Nord

Questo flusso di gente divenne così imponente che lo Stato, viste le ingenti e urgenti necessità, stabilì la creazione di un’ apposita linea ferroviaria, chiamata il “Treno del sole”, che attraversava l’Italia da nord a sud, in modo tale da favorire e permettere nel migliore dei modi il dispiegarsi di questi spostamenti. 
Gli uomini trovarono lavoro come operai nelle numerose di fabbriche che nascevano in gran numero in quegli anni, oppure nei cantieri edili; le donne al contrario erano occupate in lavori a domicilio, nel campo della maglieria, del filato e della sartoria, oppure anch’esse nelle fabbriche. Molti di questi manovali e operai acquisirono in quegli anni un’esperienza tale da permetter loro di diventare in seguito imprenditori nei vari settori in cui avevano fatto esperienza lavorativa. Durante questo periodo gli anziani, che erano rimasti nelle province del meridione, continuarono a lavorare la terra, e i giovani si trasferirono spesso nei vicini centri urbani, come Palermo e Napoli, dove c’era la possibilità di trovare un lavoro sufficientemente remunerativo.
È necessario sottolineare che in quel periodo era ancora in vigore la legge fascista del 1939 sull’emigrazione, che prevedeva il trasferimento in un altro comune solo se si era in possesso di un contratto di lavoro. 
Le motivazioni principali che spingevano gli uomini del Sud ad emigrare al Nord erano la grave sottoccupazione, un alto livello di povertà, la scarsa fertilità delle terre e frammentazione della proprietà, che caratterizzavano il Meridione italiano.

Analogamente anche al nord si assistette a un ampio fenomeno emigrazione; infatti Cremona e Mantova furono le città lombarde che si spopolarono maggiormente[ Le ragioni erano sempre le stesse: la mancanza di speranze di ripresa dopo la guerra e le precarie condizioni di vita (mancanza di adeguati servizi igienici, acqua, elettricità). La popolazione rurale di queste zone di solito si dirigeva, oltre che verso le tradizionali mete di Milano e Torino, a Varese, Como, Lecco e nella Brianza: tutte zone in cui erano presenti i primi effetti del boom.

La grande mobilità di quegli anni  non era solo a carattere definitivo, ma anche giornaliero. Infatti ogni giorno un gran numero di pendolari giungeva nelle metropoli dai paesi limitrofi.

Il cospicuo movimento migratorio non poteva non creare ampi e diversi sconvolgimenti a livello sociale. Infatti molti problemi si crearono per gran parte della gente immigrata dal Sud. Innanzitutto una situazione di disagio causato dalle diverse condizioni climatiche, dai problemi riguardanti la lingua, perché erano abituati a parlare solamente il dialetto, e dalla  difficoltà a trovare un’abitazione. Questo ha causato inefficienze non solo sul luogo di lavoro di operai o manovali, ma anche per i figli di queste famiglie che dovettero affrontare la situazione quando iniziarono la nuova scuola al fianco dei bambini del luogo. Inoltre per loro era anche difficile adattarsi alla vita di città, estremamente diversa da quella a cui erano abituati. Tutte queste difficoltà spesso ebbero delle ripercussioni negative sul loro inasprimento nel posto di lavoro e determinarono una certa insofferenza in questa gente nei confronti della società, che veniva additata come la causa dei loro problemi. 

 

 

 

 AI NOSTRI GIORNI

 

 

Riparte la migrazione interna dal Sud

di Mimmo Della Corte

 

http://www.denaro.it/go/a/_articolo.qws?recID=254467

 

 Nel Mezzogiorno, sono tornate di moda le valige di cartone? A dirla con i numeri dei principali centri di statistica italiana e sulla base del rapporto Svimez 2006, sull’economia meridionale nel 2005, sembrerebbe proprio di si.
Tant’è che - se è vero e non c’è alcuna ragione per dubitarne vista l’autorevolezza delle fonti e la possibilità di verificarlo anche “de visu” - ciò che rilevano i principali protagonisti della ricerca del nostro Paese, nel corso degli ultimi 9 anni (1997-2004) sono stati oltre 630mila (addirittura quasi 100mila, quelli che hanno staccato il biglietto di viaggio nel solo 2005, mentre stando alle prime stime sarebbero stati ben 130mila quelli che lo hanno fatto nel corso dei primi nove mesi del 2006) i giovani meridionali che hanno lasciato la propria terra nel tentativo di trovare un “posto al sole” nell’Italia più ricca e più “fertile” di lavoro: quella centro-nord. Vanno nelle regioni del nord-ovest (32,1 per cento), nel nord-est (27,4 per cento) e nel centro (26,5 per cento). Mentre soltanto il 14 per cento di quanti emigrano, lo fanno rimanendo comunque fermi all’interno del perimetro dell’Italia meridionale. Del resto, non potrebbe essere che così, visto che — per quanto non uniforme in termini di sviluppo — il Mezzogiorno, in ogni caso, presenta dappertutto, anche se con maggiore o minore intensità, gli stessi problemi. Numeri che, senza ombra di dubbio alcuno, fanno pensare ad una vera e propria emigrazione di massa che ricorda, dal punto di vista quantitativo, quella degli anni ’50 e ’60, quando l’unica e sola opportunità di occupazione per i ragazzi del Sud era quella di trasferirsi al Nord. A muoversi, oggi come negli anni ’50, i giovani tra i 20 ed i 35 anni, delusi dalla lunga ed inutile attesa di un posto di lavoro, ma soprattutto dal cattivo funzionamento del mercato del lavoro nel Sud, sempre più condizionato ed ingessato dagli errori nelle scelte delle politiche regionali, in materia di occupazione e preoccupati di dover prima o poi, per sopravvivere, rifugiarsi nel “sommerso”, con tutti i rischi, i limiti e le inadeguatezze che contraddistinguono il mondo del lavoro “nero”, o peggio ancora di doversi arruolare fra le fila della criminalità organizzata.
Se ne ricava, quindi, che la nuova emigrazione va letta ed analizzata, sulla base di una duplice chiave di lettura.
La prima rappresentata dal fatto che, i “fujenti”, vogliono assicurarsi uno stipendio, senza dover dipendere eternamente dai genitori e la seconda dal loro “no” convinto ad una classe dirigente che non stimano, ritenendola, da un lato, vittima e, dall’altro, essa stessa portatrice e mallevadrice di interessi “particulari”, spesso confliggenti con quelli generali. Sicché, se ne vanno alla ricerca di una società meno politicizzata e più aperta, dove i meriti siano garantiti e difesi dall’attacco spietato del clientelismo; più trasparente negli obiettivi e meno corrotta nelle scelte; più sicura e meno violenta; dove il riconoscimento di un proprio diritto, sia evento di ordinaria quotidianità e non una “gentile concessione” del “principe” di turno.
Ciò che, però, differenzia l’emigrazione “anni duemila” da quella dell’immediato dopoguerra è la qualità di quanti intraprendono quello che una volta era definito come “il cammino della speranza”.
A muoversi, infatti, non sono più i derelitti, i “senza arte né parte”, i manovali o quelli privi di qualsiasi specializzazione e, proprio per questo, senza prospettive, ma sono i lavoratori qualificati, i diplomati ed i laureati. Giovani, quindi, che hanno acquisito una specificità, hanno studiato e, pertanto, possono mettere in gioco professionalità e preparazione. Per conseguenza, sarebbero potenzialmente in grado di aspirare alla conquista di un ruolo di prestigio nel contesto della società contemporanea.
Un’aspirazione decisamente difficile da soddisfare nell’Italia del tacco, dove certe prospettive — almeno per il momento — sono praticamente nulle. Tutto questo, se, da un lato, rappresenta un grosso vantaggio per il Sud che vede, così, ridursi in misura consistente il proprio tasso disoccupazionale; dall’altro, nasconde due rischi enormi e, a ben vedere, decisamente più preoccupanti del vantaggio che ne deriva.
Il primo rappresentato dal fatto che interagendo con la notevole diminuzione della natalità (appena un terzo di quella degli anni ’90) sta producendo una grossa contrazione del numero dei residenti nel Mezzogiorno, al punto che l’incidenza dei residenti nel Sud sul totale della popolazione italiana che nel ’90 toccava il 36,2 per cento, oggi si è ridimensionata al 35,5.
Il secondo, ancor più pesante se letto in prospettiva futura, è che continua — anzi, si accentua — la fuga dei cervelli dal Mezzogiorno verso l’Italia settentrionale. Cosa che, nel mentre arricchisce quest’ultima, impoverisce ulteriormente il Sud di potenzialità e professionalità, che potrebbero, se ben utilizzate, dare un contributo notevole allo sviluppo del meridione.
Ed il peggio è che siamo di fronte ad una situazione che, in verità, non dà segni di volersi arrestare. Tant’è che, secondo i dati del progetto Sud-nord-sud, gestito dall’agenzia tecnica per le politiche attive di Italia Lavoro, altre diverse migliaia di giovani meridionali si stanno preparando a seguire lo stesso percorso.