“ACCOGLIENZA IN AMERICA ”

 

Gianfranco Galliani Cavenago

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L’accoglienza in terra americana dei nostri emigranti  non è stata affatto benevola; ne avvennero veramente di tutti i colori perchè c’era un clima di profonda ostilità . Il principale motivo, tra i tanti, per cui i nostri emigranti generavano e attiravano ostilità, era costituito dal fatto – come sostenevano gli esponenti del mondo politico di allora, i sindacati operai americani e tanti altri - che gli emigranti italiani non intendevano affatto stabilirsi in America ma erano “uccel di passo”, come venivano definiti. Si diceva: vengono qua, lavorano, fanno mondo a sé, consumano pochissimo - ed era vero perché era veramente proverbiale la frugalità dei nostri emigranti, che risparmiavano fino all’osso - e poi sono sudici, sono cattolici, insomma, sono poco assimilabili. E proprio in questo clima di ostilità diffusa avvengono dei fatti atroci, frequentissimi episodi di schiavitù o di semi schiavitù, il cosiddetto “péonage” (questo il termine usato), perchè i nostri emigranti, partiti magari con un biglietto prepagato dai reclutatori fazenderos - cosa che succedeva spesso e che successe soprattutto per l’emigrazione veneta che negli anni Ottanta andò in Brasile a lavorare nelle fazendas delle piantagioni di caffé, dove trovò i fazenderos ancora legati ad una mentalità schiavistica –, una volta giunti a destinazione, venivano sottoposti a violenze incredibili, che andavano dalle bastonature alle violenze alle donne, e venivano perfino incatenati alle caviglie perché non potessero scappare. Il “péonage” ci fu anche negli Stati Uniti dove gli emigranti, che erano partiti con il biglietto prepagato, andavano a lavorare nelle piantagioni di cotone della Louisiana, New Orleans e dintorni, o del Texas, ma dove questo biglietto, che i piantatori avevano anticipato, non finivano mai di pagarlo e il loro debito non era mai estinto: dovevano infatti rifornirsi presso i negozi delle compagnie dei piantatori e lì dovevano spendere l’ira di Dio. Questo per dare un’idea dello sfruttamento terribile cui erano sottoposti i nostri emigranti.

Un’altra manifestazione di ostilità era rappresentata dalla pratica della cosiddetta legge di Lynch, i linciaggi. I nativi americani, ossessionati da xenofobia e da sentimenti non certo nobili, non linciarono solo i neri ma anche tantissimi italiani. Gli episodi più clamorosi in questo senso sono quelli di Tallulah (1899) nella Louisiana o di New Orleans (1891), che fu forse quello più clamoroso e che causò anche un piccolo incidente diplomatico tra i rispettivi paesi. Tre immigrati di origine siciliana vennero a ingiustamente accusati di aver ucciso lo sceriffo del luogo e imprigionati, ma l’opinione pubblica di New Orleans non intendeva aspettare il processo. Il clima antitaliano era così radicato e diffuso che una folla di 20.000 persone - dicono le cronache del tempo - si radunò nella piazza, diede l’assalto alle carceri, ne sfondò la porta, prese i tre malcapitati, li impiccò e, non sazia di questo, culminò l’opera crivellandoli di colpi. Sono tantissimi i fatti del genere che credo debbano essere ricordati.

Questa nuova emigrazione, come venne definita l’emigrazione italiana, incompatibile e non assimilabile per le ragioni che abbiamo detto, creò una situazione molto particolare che, paradossalmente, vide gli industriali americani favorevolissimi all’importazione di questa manodopera. Da questo punto di vista gli industriali americani erano ultraliberisti; per converso le unioni sindacali americane – e in particolare la Federazione americana del Lavoro, presieduta da Samuel Gompers, emigrato di origine ebraica - erano ferocemente contrarie a questa nuova emigrazione e, soprattutto, agli italiani. Perché? vien da chiedersi.

Una spiegazione c’è, perché tutto, secondo me, ha una sua razionalità: ad inizio secolo l’industria americana si stava riorganizzando su basi efficientistiche - pensiamo ad Henry Ford a Detroit e a tutta l’organizzazione scientifica tayloristica del lavoro - e non aveva più tanto bisogno degli operai specializzati di antico retaggio migratorio, degli operai qualificati e specializzati inglesi o tedeschi, tutti inquadrati nella Federazione Americana del Lavoro, ma di una nuova figura di operaio - che in tempi recenti avremmo definito l’operaio massa - adatto ad assolvere a operazioni semplici alla catena di montaggio e via dicendo. Gli imprenditori americani avevano bisogno di questa nuova figura che si accontentava di salari inferiori e faceva la concorrenza alla Federazione del Lavoro di Gompers, che si muoveva invece in un’ottica corporativa. All’interno di questo quadro si accende una feroce polemica tra i sindacati e gli industriali, nella quale purtroppo i sindacati americani non brillano di lungimiranza perché, anziché  gestire consapevolmente la nuova situazione produttiva che si era creata, intavolando una concertazione - come diremmo oggi - con i padroni americani, assumono una posizione chiusa, corporativa, tesa a difendere i propri privilegi. Da qui l’accusa ai nostri operai di essere “scabs”, crumiri, seguita da tutta una serie di ingiurie, il cui elenco è lunghissimo, rovesciate sugli emigranti italiani, la più usata delle quali era “dago”, termine dall’etimo incerto, che non vi saprei tradurre, ma che era sicuramente un’ingiuria infamante. Da questo clima deriva la legislazione, di cui vi parlavo prima, del Contract Labor e delle altre norme restrittive. Nel 1907 si insedia negli Stati Uniti d’America la commissione Dillingham, come viene chiamata dal nome del suo presidente, che comincia a studiare gli effetti della nuova emigrazione poco desiderata e che, nel 1911, pubblica, in 41 volumi, i risultati del suo lavoro, che viene definito “la Bibbia dell’emigrazione”. Si trattava in realtà di un vero e proprio distillato di xenofobia e di razzismo dal quale derivarono tutte le successive norme restrittive, quali il Literacy Act del 1917 e i Quota Act del 1921 e 1924, che conclusero questa legislazione sull’immigrazione.

Di cosa si trattava? La legge del 1917, che sottoponeva i nostri emigranti a un compitino di alfabetizzazione, era una normativa abbastanza restrittiva perché la maggior parte dei nostri primi emigranti era analfabeta e una normativa di questo genere aveva, conseguentemente, un valore punitivo. Ciononostante, nel 1917 una buona parte dei nostri emigranti era abbastanza alfabetizzata e gli emigranti cuggionesi in particolare erano i più alfabetizzati. Sapete perchè? Perché proprio in quel periodo la locale società di mutuo soccorso e la cooperativa dei terrazzieri di Cuggiono avevano organizzato una scuola professionale complementare di disegno, come era ufficialmente denominata, che era in realtà una scuola per emigranti, dove si insegnava l’abc dell’emigrazione e, soprattutto, si faceva scuola. Si diceva: cuggionesi per andare in America dovete sapere leggere e scrivere. Da questo punto di vista quindi i nostri emigranti furono i più avveduti, i più accorti, i più preparati.

Soffrirono però tutti quando nel 1921 venne emanata la prima legge Johnson, dal nome del suo presidente, meglio nota come la prima legge Quota Act, cioè la prima legge che contingentava l’emigrazione. Funzionava nel seguente modo: poteva entrare negli Stati Uniti il 3% dell’etnia già residente in riferimento al censimento federale del 1910. Era una bella restrizione. Alcuni anni dopo però gli Stati Uniti, non paghi con una sorta di perfidia nel voler allontanare o contenere al massimo l’emigrazione latina per favorire quella nord europea, varano ulteriori restrizioni di quota: non più il 3% ma il 2%, riferito non al censimento federale del 1910 ma a quello del 1890, quando prevaleva l’emigrazione nord europea; tutto ciò a scapito, di fatto, dell’emigrazione italiana che, dal 1924 in poi, si ridusse a 3.400 emigranti che ogni anno potevano entrare negli Stati Uniti. E gli ispiratori principali di questa legislazione restrittiva sull’emigrazione furono i sindacati.

I nostri emigranti, per quanto sprovveduti, per quanto reietti dalla società, cercarono di organizzarsi e di far fronte a questa ostilità diffusa. Nel 1905 a Chicago nasce un nuovo sindacato denominato Lavoratori Industriali del Mondo, meglio noto con la sigla IWW, che si propone di tutelare e difendere i diritti  dei lavoratori di tutto il mondo, e in specie di quelli italiani, riuscendo ad ottenere anche qualche risultato e a rompere un po’ il monopolio dei sindacati della Federazione Americana del Lavoro che, fra l’altro, precludeva l’ingresso ai nostri lavoratori, perchè faceva pagare addirittura una tassa di ingresso di 100 dollari; chi si voleva iscrivere al sindacato di Gompers doveva pagare 100 dollari, una cifra inaccessibile. I nostri connazionali erano l’anima di questo nuovo sindacato fondato sulla solidarietà e sulla tolleranza, dove non c’era discriminazione etnica o di nazionalità. Proprio questo sindacato, sotto la guida di alcuni esuli politici italiani – cito ad esempio Giacinto Menotti Serrati, dirigente socialista italiano che all’inizio del secolo dirigeva il periodico, pubblicato a New York, “Il Proletario”; Carlo Tresca; Luigi Galleani, e così via -, diede vita a battaglie memorabili, come quella di Lawrence-Massachusetts del 1912, quando gli operai tessili italiani diedero organizzarono un memorabile sciopero, oggetto addirittura di rappresentazioni teatrali, coronato dal successo; oppure lo sciopero di Paterson-New Jersey, l’anno successivo, memorabile anch’esso ma non caratterizzato dal successo dell’anno precedente.

Ritengo doveroso sottolineare il fatto che i sindacati americani siano stati i principali ispiratori di questa ottica negativa, piccina, meschina, così come sono stati i principali ispiratori della legislazione americana restrittiva dell’immigrazione.