LA RIELEZIONE DI OBAMA

VISTA DALL'ITALIA

 

 

 

La coalizione che ridisegna gli Stati Uniti

Mario Calabresi

  La Stampa

 

La vittoria di Barack Obama di ieri notte non è sorella di quella di quattro anni fa.  

Nel 2008 la Casa Bianca fu conquistata grazie a un messaggio potente di cambiamento e novità. A incantare la maggioranza degli americani furono l’immagine e la retorica di un giovane senatore nero, che rompeva gli schemi della politica tradizionale e le barriere razziali. 

 

 

La vittoria di Barack Obama di ieri notte non è sorella di quella di quattro anni fa.  

Nel 2008 la Casa Bianca fu conquistata grazie a un messaggio potente di cambiamento e novità. A incantare la maggioranza degli americani furono l’immagine e la retorica di un giovane senatore nero, che rompeva gli schemi della politica tradizionale e le barriere razziali. 

 Oggi quell’incanto e quella speranza sono svaniti, sostituiti però dalle speranze individuali di milioni di persone che in quel Presidente, che nel frattempo ha compiuto i cinquanta, vedono ancora la possibilità di una loro realizzazione. 

 Per me il volto della vittoria di ieri sera è quello di Jacky Cruz, che ho intervistato all’inizio di settembre a Tampa. Jacky, 21 anni, è una perfetta ragazza americana, parla inglese senza accenti stranieri, è stata la prima della classe dalle elementari alle superiori, fa volontariato, ha sempre lavorato per contribuire a pagarsi gli studi ma ora non può frequentare l’università. La sua colpa è di essere entrata illegalmente negli Stati Uniti quando aveva tre anni, insieme ai genitori venuti a raccogliere mirtilli nei campi della Florida, e di non esserne mai più uscita. E’ una clandestina e da quando è maggiorenne ha scoperto anche di essere invisibile, come due milioni di ragazzi con la sua stessa storia, che scommettono su Obama per non essere più fantasmi. 

 La vittoria di ieri notte è sorella di Jacky.  

 Ed è figlia della sapiente costruzione di una coalizione elettorale capace di saldare una serie di minoranze che da sole risulterebbero ininfluenti e perdenti. 

 Per riuscirci e per vincere le elezioni bisogna conoscere il proprio Paese, sapere esattamente chi sono, cosa pensano e cosa vorrebbero per il loro presente e il loro futuro i cittadini. La capacità della squadra di Obama è stata di farlo con precisione millimetrica: preso atto che la maggioranza degli elettori maschi bianchi si stava spostando verso destra, verso il candidato repubblicano, era tempo di creare un nuovo blocco di interesse ripetendo l’operazione che Franklin Delano Roosevelt fece esattamente ottant’anni fa, quando mise insieme gli agricoltori bianchi del Sud e i nuovi lavoratori italiani e irlandesi garantendo ai democratici due decenni di predominio. 

 Oggi, che come nel 1932 viviamo sprofondati nella recessione, era possibile osare un cambio di paradigma, perché la crisi economica ha cambiato il sentimento profondo dell’America.  

 Così è nata una nuova coalizione che si può permettere di vincere anche contro il pensiero economico dominante da decenni, anche se è portatrice di un’idea di Stato pesante e presente, un concetto considerato a lungo una pericolosa bestemmia per chi volesse entrare alla Casa Bianca. Una coalizione che ha permesso di vincere nonostante il sessanta per cento degli elettori bianchi abbia scelto Mitt Romney e che ha sancito che l’America bianca, anglosassone, dello Stato leggero e del conservatorismo sociale non è più in grado di dettare legge da sola: è andata in minoranza. 

 Le paure di Samuel Huntington, l’uomo dello «Scontro di civiltà», ieri notte si sono avverate. Tre anni prima di morire, nel 2005, il professore di Harvard aveva teorizzato la fine di quell’America «wasp», con il mito dell’individualismo e del libero mercato, che per due secoli era stata capace di integrare ogni ondata migratoria nella sua ideologia fondativa.  

 Ora è accaduto, anche se in termini diversi da quelli catastrofici profetizzati da Huntington. Obama ha saldato una minoranza bianca progressista, intellettuale, interessata soprattutto ai diritti civili (dai matrimoni gay, all’aborto, alle tematiche di genere) con il blocco delle minoranze dell’America multietnica. I democratici hanno conquistato il voto del 93 per cento degli afroamericani, del settanta per cento degli ispanici e del 73 degli asiatici. I latinos hanno fatto la differenza in Florida e Virginia e hanno rotto il blocco conservatore del Sud-Ovest regalando al Presidente Colorado e New Mexico. 

 Eppure gli ispanici sarebbero gli alleati ideali dei repubblicani: sono cattolici, vivono per la famiglia, non amano l’idea dei matrimoni gay e sono conservatori. Potrebbero sposare un conservatorismo dei valori ma non possono permettersi un Paese in cui vinca l’idea di un welfare minimo (le loro famiglie allargate hanno bisogno di scuola e sanità pubblica) e non possono condividere una politica di espulsioni verso i lavoratori immigrati che non hanno regolare permesso di soggiorno (i clandestini sono 12 milioni).  

 

Questi gruppi sociali così diversi condividono un’idea, passatemi il paragone, più europea della società, con una presenza dello Stato che si sente. Gli operai bianchi dell’Ohio e del Michigan, a differenza dei loro colleghi di tutta America, hanno scelto di votare democratico perché si sono sentiti più garantiti dall’uomo del salvataggio pubblico dell’industria dell’auto, piuttosto che dal repubblicano che sosteneva - in nome dell’economia di mercato - che sarebbe stato meglio lasciar fallire Detroit. 

 

Nello studio dettagliato degli spostamenti demografici, geografici e sociali della popolazione, la squadra di Obama ha anche capito che, non solo per una frangia radicale, ma per la maggioranza delle donne americane è cruciale la libertà di scegliere di fronte ai temi che riguardano la loro vita riproduttiva, tanto da non sopportare più di sentirsi dettare le regole da un gruppo di maschi bianchi. E così la campagna mirata di Obama sui diritti delle donne gli ha garantito il voto del 55 per cento delle elettrici americane. 

 

Questa coalizione vincente, destinata a crescere con il boom demografico ispanico, mette in grave crisi il partito repubblicano e gli imporrà di ripensarsi profondamente, ma consegna al Presidente in carica un Paese profondamente diviso e polarizzato. Da questa mattina, anzi già da ieri notte con il discorso della vittoria, Obama dovrà dimostrare di saper anche ricucire l’America. 

 

 

 

 

Gli Stati Uniti spendaccioni sono un rischio

 

 

Le elezioni americane si sono giocate sull'economia: come rimettere in sesto la finanza pubblica del Paese e il ruolo che deve avere lo Stato sociale. Il debito pubblico americano viaggia verso il 100 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) e non si ferma. A politiche invariate, la spesa sanitaria e in particolare il Medicare (la protezione gratuita per tutti gli anziani, ricchi e poveri) crescerà a ritmi esponenziali; i sistemi pensionistici dei dipendenti di molti Stati sono già sull'orlo della bancarotta. I tassi di interesse non potranno rimanere così bassi per sempre, tenderanno invece a salire. E con un debito così alto, anche aumenti modesti si trasformeranno in macigni per i contribuenti. La politica monetaria non potrà aiutare, avendo esaurito da tempo le sue cartucce. La crescita del Pil è discreta ma non sarà sufficiente a ridurre il rapporto con il debito. Obama ha di fronte a sé tre strade. La prima è di fare poco o nulla. Sfiorare ma evitare di cadere nel fiscal cliff , quel «precipizio fiscale» frutto della pericolosa combinazione che si verificherà a fine anno quando termineranno alcune agevolazioni fiscali e contemporaneamente partiranno tagli di spesa automatici.

Per evitare la trappola dovrà però affidarsi a qualche aggiustamento marginale; aumentando cioè di molto le aliquote sui più ricchi, ma senza affrontare nessuno dei problemi strutturali della dinamica del debito, consegnando così la «patata bollente» al prossimo presidente.

La seconda strada è quella di continuare ad aumentare la spesa pubblica per cercare (probabilmente invano) di accelerare la crescita. Ma sempre per evitare il «fiscal cliff» ciò significherebbe un aumento delle imposte consistente e non solo per quel «famoso» uno per cento di ultra ricchi.

Gli aumenti dovranno essere generalizzati e questi ultimi rischiano di aver un effetto recessivo e quindi controproducente. Le conseguenze le stanno sperimentando alcuni Paesi europei, compreso il nostro: tasse più alte, recessione, difficoltà a far quadrare i conti perché il Pil scende e con esso il gettito fiscale.

È questo a cui si riferiva Romney quando diceva che con Obama l'America sarebbe finita come certi Paesi europei. Gli effetti espansivi di più spesa pubblica (ammesso che vi siano) sarebbero un fuoco di paglia ben presto compensato dagli effetti negativi. E cioè: più incertezza degli operatori sul futuro fiscale degli Stati Uniti, aumento delle preoccupazioni sul debito e possibili incrementi dei tassi di interesse, associati a instabilità dei mercati finanziari sempre più nervosi.

La cosa migliore che Obama può fare per favorire la crescita è dare invece stabilità al quadro fiscale, e «regole» ai mercati finanziari e non. Altre scorciatoie non vi sono. Ed ecco, appunto, la terza strada di Obama: combinare i suoi legittimi desideri di uno Stato sociale relativamente generoso con la stabilità dei conti. Come farlo? Non facile, ma la ricetta è nota.

Concentrare la spesa sociale sui veri deboli e non con aiuti a pioggia; riformare la bomba a orologeria di Medicare; aggredire e non posporre il problema dei sistemi pensionistici pubblici disastrati; semplificare infine un sistema fiscale bizantino eliminando detrazioni e sgravi a questo o quel settore solo perché particolarmente ben rappresentato da qualche lobby.

Lo spazio c'è, come sostenevano gli economisti di Romney. Come europei, ciò di cui abbiamo bisogno non è di un'America che segua politiche che, nel tentativo di far salire di qualche frazione di punto la crescita per un paio d'anni, compromettano ancor di più la sua solidità fiscale. E per di più inondando il mondo di titoli di Stato Usa, per il momento ancora appetibili, ma non si sa per quanto.

Abbiamo bisogno invece di un'America prudente, che guidi il mondo occidentale verso un'uscita dai postumi della crisi con politiche lungimiranti, che non spostino sulle generazioni future un costo fiscale esorbitante. Non vogliamo più un'America spendacciona che si fa finanziare dall'estero.

Speriamo che Obama segua la terza strada. I repubblicani avranno la maggioranza alla Camera, quindi senza un accordo bipartisan il presidente Usa non riuscirà a governare da solo e questo è un bene; solo con un solido accordo bipartisan l'America uscirà dalla spirale del debito.

Sono fiducioso che i due partiti ritrovino la strada della cooperazione. Era difficile sperare che la seguissero prima di una corsa presidenziale così incerta e contesa, ma ora non c'è altro percorso. L'America ha saputo in passato uscire da situazioni anche più difficili di questa, ma il tempo stringe e il baratro si avvicina.

 

 

 

 

Il sogno americano? Per ora c'è l'incubo di un debito di 16.190.979.268.766,67 $ e la paura del precipizio fiscale

 

 

Come un orologio svizzero, dopo l'esito delle urne le agenzie di rating statunitensi sono tornate alla carica. Secondo Fitch e Moody's se non verranno risolti in tempi rapidi i problemi del fiscal cliff e del debito pubblico nel 2013 gli Usa potrebbero essere downgradati. Ecco gli scenari che si aprono

Barack Obama ha vinto le elezioni aggiudicandosi la guida degli Stati Uniti per altri quattro anni. I sondaggi sono stati confermati. Così come è stata confermata la spaccatura tra Senato (ai democratici) e Camera (ai repubblicani). Come un orologio svizzero, dopo l'esito delle urne le agenzie di rating statunitensi sono tornate alla carica. Fitch ha sentenziato in poche parole che se Obama non risolve lo spinoso tema del fiscal cliff (il precipizio fiscale che incombe sugli Usa dato che da gennaio 2013 scadono gli sgravi fiscali approvati da Bush e prorogati dallo stesso Obama e si teme una ricaduta sul PIl tra il 3 e il 4%) la Tripla A potrebbe cadere.

Anche Moody's si è detta pronta a un downgrade. In questo caso l'agenzia statunitense ha puntato il dito sull'altro tallone d'Achille dell'economia a stelle e strisce: il debito pubblico che continua a crescere a causa di disavanzi annui via via più corposi. Complice la crisi finanziaria (e il salvataggio delle principali banche Usa, fatta eccezione per Lehman Brothers), l'onda d'urto del piano Tarp da 700 miliardi di dollari e tre manovre di quantitative easing in tre anni, il debito statunitense è balzato oltre i 16mila miliardi di dollari. Moody's non è andata per il sottile: se gli Usa non stabilizzeranno il debito perderanno il proprio rating. Non si è ancora pronunciata, invece, la terza grande sorella del rating, Standard and Poor's, che però ha tagliato la Tripla A agli Stati Uniti più di un anno fa.

Insomma debito pubblico e fiscal cliff, ovvero tematiche macro forti, tornano immediatamente sotto i riflettori una volta smaltita la sbornia del marketing politico e degli slogan ad effetto che tanto il vincitore Obama, quanto lo sconfitto Mitt Romney hanno utilizzato nella campagna elettorale. Cosa c'è da aspettarsi adesso se Obama non riuscirà a prendere di petto i due macigni che pesano sull'economia americana? Cosa succederà se il prossimo anno la prima economia del pianeta incasserà il downgrande di Moody's e e Fitch?