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OBAMA

NELLA STAMPA ITALIANA

 

Commento di un lettore

 

Il monito di Obama


Corriere della sera

di Angelo Panebianco

Probabilmente non è così esperto da mettere in conto tutte le conseguenze delle proprie dichiarazioni. Gli premeva solo segnare un punto contro il suo avversario, il repubblicano John McCain. Ma quando, alcuni giorni fa, Barack Obama, il candidato democratico, ha assunto una durissima posizione contro l'Iran, chiarendo che lo considera un nemico dell'America, egli ha lanciato, involontariamente, anche un messaggio all'Europa.

Soprattutto, a quella parte d'Europa tentata dall'appeasement con l'Iran. Riflettano quelli che in Europa pensano che con l'Iran bisogna fare solo affari, fingere che il presidente iraniano Ahmadinejad sia un pazzo isolato che non va preso sul serio quando ribadisce che Israele dev'essere distrutto e chiudere gli occhi di fronte all'espansionismo del-l'Iran in Medio Oriente e al suo programma nucleare. Non sappiamo se il «predicatore » diventerà presidente e se, diventandolo, darà vita a una politica estera mediocre e oscillante (come quella di Jimmy Carter) oppure di grande profilo come quella di altri presidenti democratici. Ma una cosa è sicura. L'America (eventuale) di Obama non cesserà di essere pronta alla durezza nei confronti delle più pericolose potenze revisioniste, quelle che si propongono di rovesciare a proprio vantaggio, anche con la forza delle armi, lo status quo (l'Iran di oggi è una potenza del genere nello scacchiere mediorientale). C'è quindi da scommettere che molto del favore che Obama raccoglie anche in Europa (la «buona America » contro quella cattiva di Bush) si ridurrà se egli diventerà presidente. Si noti che una politica dura nei confronti del-l'Iran porterà per forza altre conseguenze.

Non potrà essere abbandonato l'Iraq perché ciò permetterebbe all'Iran di dilagare senza contrappesi nella parte sciita di quel Paese. Nel Libano, dove l'Hezbollah filoiraniano si è ulteriormente rafforzato, si dovrà continuare a fronteggiarne la minaccia. La stessa cosa varrà per Gaza. E' un monito anche per noi italiani. Bene ha fatto il governo a non ricevere Ahmadinejad durante la sua visita alla conferenza della Fao e bene hanno fatto le forze politiche a tenersene distanti. Così come è giusto voler entrare nel gruppo 5+1 per partecipare all'azione internazionale coordinata contro la potenziale minaccia nucleare iraniana. Anche a costo di perdere commesse e affari. Poiché una guerra (che, purtroppo, ha forti probabilità di scoppiare se non ci saranno, nei prossimi anni, un cambio di regime in Iran o una sua rinuncia al nucleare militare) farebbe perdere a tutti molto di più. Come ha scritto Mario Ricciardi sul Riformista, trattare con i gangster politici si può e, talvolta, si deve, ma si può fare solo mettendo una pistola sul tavolo. Chi non la pensa così nel caso dell'Iran ne sottovaluta la minaccia oppure ha ragioni inconfessate per approvarne l'avventurismo (perché, ad esempio, detesta a tal punto Israele da considerarlo una pedina sacrificabile). L'Iran, si dice, è una società complessa ove sono presenti molte forze. Lo è di sicuro. Ma per permettere alle forze interne contrarie all'avventurismo dell'attuale gruppo dirigente iraniano di prevalere, occorre un Occidente compatto e deciso, tale da non lasciare al regime spiragli per giocare un Paese occidentale contro l'altro. Forse persino Obama non sarà molto diverso da Bush su questo punto.

08 giugno 2008

 

"Da oggi il sogno diventa afroamericano"

LA     LA STAMPA

MAURIZIO MOLINARI


E’ l’identità post-moderna di Barack Obama la novità che sta trasformando l’America». Michael Walzer parla dal suo studio all’Università di Princeton, la voce è bassa ma le parole assai chiare, scandite in un misto di premura e passione. Per il sociologo direttore della rivista «Dissent», anima critica dei liberal d’America, l’arrivo del primo afroamericano a una nomination presidenziale è uno spartiacque che si inserisce nel solco delle tante innovazioni umane che l’America è stata capace di generare.

Professore, lei ha scritto che ciò che distingue gli Stati Uniti dall’Europa è il fatto che a metà dell’Ottocento la maggioranza bianca, anglosassone e protestante, in America decise di diventare minoranza, accettando l’arrivo in massa degli immigrati. In tale cornice storica, che cosa significa la conquista della nomination democratica da parte di Barack Obama?
«E’ un evento spartiacque, perché nell’America costruita dagli immigrati arrivati da ogni parte del mondo finora vi era un’eccezione. I neri, che immigrarono non per propria scelta ma perché furono obbligati a farlo, non si sentivano pienamente protagonisti del sogno americano, la memoria della schiavitù faceva percepire loro l’America come una meta forzata e proprio per questo hanno sviluppato un’identità conflittuale con il resto della società. La vittoria di Barack Obama nella corsa alla nomination trasforma questa frattura fra gli afroamericani e l’America in qualcosa che appartiene al passato, non più al presente. Il fatto che un nero possa diventare presidente degli Stati Uniti consente agli afroamericani di sentirsi protagonisti del sogno americano come finora non era mai avvenuto. Una delle ferite più profonde della nostra società viene sanata, resta aperta l’altra, quella degli indiano-americani».

Come è stato possibile che Barack Obama riuscisse dove altri in passato hanno fallito?
«Obama è riuscito perché ha una identità post-moderna. E’ nero ma è anche bianco, ha scelto di avere l’identità afroamericana ma non è afroamericano perché non discende da immigrati schiavi. Il padre nero era del Kenya e la madre bianca è nata in Kansas. Obama non appartiene alla vecchia generazione di leader afroamericani, come Jesse Jackson, la cui identità politica dava corpo alla frustrazione per la mancata piena integrazione. Obama appartiene a una nuova generazione di leader neri post-moderni, assieme a politici come Deval Patrick, governatore del Massachusetts, e Cory Anthony Booker, sindaco di Newark».

Quanto è radicata questa identità post-moderna?
«E’ il maggiore fattore di novità. Lo abbiamo visto in occasione del contrasto fra Obama e l’ex pastore della sua Chiesa, il reverendo Jeremiah Wright. Quest’ultimo rappresenta la vecchia identità afroamericana, che vive sul rancore e dunque lo fomenta, lo rinnova di generazione in generazione. Barack Obama ha rotto con il pastore, ha condannato le sue idee e ha abbandonato la Chiesa di Chicago proprio perché questa vecchia identità è incompatibile con la sua, che rappresenta gli afroamericani protagonisti nella piena integrazione in America».

Quanto peserà il fattore-razzismo nella campagna elettorale per la Casa Bianca?
«L’impressione al momento è che i sentimenti razzisti alberghino in un settore particolare della società: la classe operaia bianca, soprattutto nella sua componente maschile. Essere nero però potrebbe anche aiutare Barack in più ampi settori del corpo elettorale: il popolo americano ama le sfide impossibili, si appassiona nella demolizione dei tabù più consolidati e ha una voglia innata di trasformare la Storia, creando nuovi modelli, nuove idee, che possano essere di esempio per il mondo intero. Votare Obama può essere una maniera di fare tutto questo».
 

 

Per l'America dei democratici cambiamento epocale

Il sole 24 ore

 

Barack Obama è stato dunque incoronato. Ormai, dopo le elezioni di ieri in Montana e Sud Dakota, non ci saranno più ostacoli fra lui e la nomination ufficiale alla convention di Denver di fine agosto. Un esito ampiamente scontato, preannunciato da notabili politici, anticipato sulle pagine dei giornali. Resta il fatto che questo tormentato passaggio tra previsione e certezza si è finalmente compiuto. E la data resterà storica. Ieri infatti è stato il giorno in cui, con la chiusura delle primarie, l'America dei democratici ha votato per un cambiamento, anzi, per un cambiamento epocale: per la prima volta, un afroamericano, giovane, fuori dall'establishment avrà la possibilità di accedere alla Casa Bianca grazie all'appoggio dei giovani, delle minoranze di colore e delle donazioni via Internet di milioni di persone.
Da solo questo risultato segna una svolta per il Paese. Dà speranza a quei milioni di derelitti che si sentono emarginati dalla crescita sociale ed economica americana. E dà un messaggio forte al mondo intero nel momento in cui gli Stati Uniti appaio fragili, afflitti da problemi gravi anche sul piano economico: l'America ha un futuro da "melting pot", da crogiuolo razziale, un futuro sperimentale che non è riproducibile oggi in nessuna altra Nazione, una democrazia solida, che una volta di più si ribella contro lo status quo.

E che l'umore attorno a noi sia per un cambiamento generale, per una svolta generazionale per la definizione di un'epoca nuova, lo si sente nell'aria ormai da molti mesi. E non solo sul fronte politico, ma su quello del costume, dell'etica, della finanza. Proprio ieri, in parallelo alla vittoria di Obama, abbiamo avuto notizie di cambiamenti sul piano industriale, su quello finanziario e su quello economico. La General Motors ha annunciato che chiuderà alcuni impianti di produzione degli Suv e che venderà la divisione che produce gli Hummer. La decisione non è soltanto una risposta strettamente industriale ai prezzi record del carburante. Si archivia piuttosto una pagina di storia del costume del Paese. Gli Suv sono stati per 15 anni il simbolo di un'era di eccessi, ma anche di spensieratezza, gli Hummer di arroganza, di prepotenza, di esibizionismo. L'America che perde in Iraq, che ha il dollaro a pezzi, che non è rispettata, che dipende finanziariamente dai paesi emergenti, oggi è più umile. Sempre ieri: è rispuntato il fantasma della crisi subprime. La scure si è abbattuta su Lehman Brothers, una delle banche d'affari più prestigiose, 158 anni di storia, ma anche su Wachovia, quarta banca del Paese, e sulla Washington Mutual. Un richiamo alla realtà proprio quando sembrava che le cose in Borsa si mettessero al meglio. Ieri chi suggeriva di evitare nuove regole per migliorare la trasparenza ha dovuto arrendersi alla realtà: anche per il comparto finanziario bisognerà cambiare le regole del gioco. C'è poi l'economia, e la politica sociale: la gente stringe la cinghia, l'assicurazione sanitaria per tutti è lontana, il dollaro è debole e la recessione resta fra noi. Ben Bernanke ci ha confermato ieri che la manovra sui tassi è finita. Ma ha espresso inusuali preoccupazioni su dollaro e inflazione. " Ci vorranno dei cambiamenti" ha detto.

Con Obama il cambiamento è a portata di mano. Del resto, subito dopo il New Hampshire, lo aveva detto lo stesso Bill Clinton, uno dei Presidenti più amati negli ultimi 50 anni: "Queste elezioni sono per il cambiamento". Aveva ragione. Hillary se n'e' accorta tardi. E' ancora frastornata per come un giovane appena arrivato al Senato sia riuscito a batterla. Ma anche se l'avesse capito per tempo, non ci avrebbe potuto far nulla. Il Paese sapeva benissimo chi rappresentava il passato e chi il futuro dovendo scegliere tra i Clinton e Obama. Adesso per il candidato democratico alla Casa Bianca del 2008 si apre una nuova fase. Ma su un punto tutti concordano: proprio per la voglia di cambiamento diffusa in tutto il Paese, le sue probabilità di vincere la Casa Bianca sono molto alte. E sarà molto difficile per John McCain, il candidato repubblicano, convincere gli americani che rispetto a Barack Obama il vero cambiamento sarà lui. E' un patriota, un eroe di guerra, è amato. Ma è anche un uomo di 72 anni, coinvolto da 22 nella macchina del potere della capitale. Non certo la la direzione in cui guardano gli elettori americani quando vogliono sancire il passaggio di un'epoca.
(M.P.)